giovedì 15 marzo 2012

[E d'un tratto il vuoto]



Aveva avuto un incubo anche quella notte,  Claudia. Era ormai abituata ad aprire gli occhi alle 4.30 del mattino e a non riuscire più ad addormentarsi. Da due anni. Quella scena era ancora viva nella sua mente e la rincorreva anche nei sogni.
“Era martedì.  Il compleanno di Richard, suo marito. Compiva 43 anni quel martedì. Lei aveva chiesto il permesso di uscire prima dal lavoro, voleva fargli una sorpresa. Avevano così poco tempo per loro. Era uscita dall’ufficio alle 12. Era passata a comprare una bottiglia di vino bianco italiano ed era tornata a casa. Aveva fatto piano. Scalza, si era diretta verso la camera da letto: sicuramente Richard stava ancora ronfando. Aveva lasciato scivolare la giacca sul pavimento, sbottonato la camicia, slegato i capelli. Aveva preso due bicchieri al volo ed era entrata. Ma quel martedì, Richard non ronfava affatto: dalla porta riusciva a vedere solo la sua schiena, perlata di sudore, il resto, strisciava sotto le sue lenzuola bianche. Le aveva cambiate la mattina precedente, quelle lenzuola.  Senza rendersene conto, la bottiglia di vino era già frantumata sul pavimento e i due corpi nudi in allerta sul suo letto. Sotto le sue lenzuola bianche. C’era Richard. E c’era Julia. E c’era un <<Claudia, posso spiegare>>. Immediatamente seguito dalle carte per il divorzio”.
Julia era solo una bambina. Era una delle pazienti più giovani di Richard: aveva una rara forma di leucemia, a soli 19 anni. Claudia l’aveva conosciuta il Natale precedente, alla serata di beneficenza in casa loro. Aveva 19 anni. E le aveva rubato il marito.
Claudia non aveva mai più avuto contatti con Richard. Non aveva sue notizie da due anni. A volte si chiedeva che fine avesse fatto. Se fosse ingrassato. Se ci provasse ancora con le ragazzine. E sapeva bene che era così. Purtroppo.
 Aveva 42 anni, Claudia. Si era buttata a capofitto sul lavoro, dal momento in cui la sua famiglia era sparita.
New York Times. Viceredattore.
Molti anni prima, aveva lasciato la sua Toscana, la sua famiglia, per inseguire il suo sogno. E adesso, lavorava seduta ad una scrivania, in un ufficio al 43° piano di un palazzo. In Times Square. E non aveva un marito.
Aveva indossato il tailleur bianco ed era uscita. In anticipo, come sempre. Non prendeva nemmeno la metropolitana la mattina, andava sempre a piedi. Ci metteva 35 minuti per arrivare a Times Square. Come ogni giorno era entrata nella hall del palazzo, aveva salutato Al e si era diretta verso l’ascensore. Stranamente quella mattina era sola. Con aria circospetta si era guardata attorno: l’incredibile movimento mattutino sembrava tenersi alla larga dall’ascensore. Era salita da sola, aveva premuto “43” e le porte si erano chiuse. Si era guardata allo specchio che ricopriva un’intera parete: odiava quelle rughe attorno agli occhi, ma non aveva mai pensato di risolvere il difetto ricorrendo alla chirurgia plastica. Quelle imperfezioni l’avevano distratta: si stava muovendo, si, ma l’ascensore scendeva, e ad una velocità inquietante. Aveva cercato invano di premere ALT, il campanello d’allarme, tutti gli altri bottoni, ma niente. Inesorabile, l’ascensore precipitava. Di colpo poi si fermò, facendo cadere Claudia a terra, ansimante e spaventata.
 “Ma che cazz…” non riusciva a capire. Dov’era finita? Cos’era successo? Si rialzò piano. Il buio incombeva sull’ascensore e cominciava a mancarle l’aria. Urlò. Ma capì subito che era inutile. Infilò le unghia nella stretta fessura della porta, ma anche questo era inutile. Al di là della fessura, riusciva a vedere il vuoto.
“Merda!” e tirò un calcio verso lo specchio, che si frantumò immediatamente.
“Che cavolo succede…” sgranò gli occhi. I pezzi di specchio fluttuavano nell’aria ed improvvisamente vennero risucchiati nella voragine che si era aperta dietro lo specchio. O dietro ciò che ne restava.
Claudia era immobile: pietrificata da curiosità e paura. Avrebbe voluto che fossero sbucati fuori i colleghi che fra le risate le urlavano “Scherzo!”, com’era loro solito fare. Invece, mise piede al di là della parete e venne risucchiata anche lei.
Gelide gocce sulla fronte le fecero aprire gli occhi. Si alzò a stento. Non aveva più una scarpa e il suo tailleur bianco era fradicio. Si guardò attorno, incredula. L’ascensore l’aveva catapultata in una caverna.
Poggiò la mano su una parete e percepì la pietra gelida e umida. Dietro di lei era sparito tutto. Da dove era arrivata? Decise di proseguire. Non aveva scelta. Tutto era in penombra.Sotto i piedi, il muschio zuppo d’acqua le si appiccicava alla pelle. Non esisteva uscita.
 In un nanosecondo le passarono per la mente tutte le cose che aveva fatto e che avrebbe potuto fare nella vita: avrebbe potuto tornare più spesso in Italia, salutare suo padre prima che morisse e dirgli che non era scappata via a causa sua; avrebbe potuto insistere un po’ di più, e magari adesso essere mamma… mamma di una figlia che non avrebbe avuto un padre, ma pur sempre mamma; avrebbe potuto ascoltare i suoi genitori: studiare medicina e sposare un italiano; ma aveva fatto bene a venire a New York, nonostante tutto. La sua carriera era soddisfacente, anche se adesso era finita. Come era finita la sua vita.
Si fermò un attimo, tremante, e vide da lontano uno spiragliodi luce. Allungò il passo, e fece capolino tra le due pareti che conducevano ad un corridoio strettissimo e molto corto. Ciò che vide la fece rabbrividire.
“Richard…” sussurrò. Non riusciva a muoversi. Era paralizzata.
Richard alzò piano la testa e la guardò, quasi chiedendole aiuto.
L’uomo era completamente nudo, appeso alla parete con delle grosse corde che lo tiravano su per le braccia, a mezzo metro da terra. Aveva ferite e bruciature su tutto il corpo, e sembrava dover cedere, da un momento all’altro. Gemeva, con le forze che gli rimanevano, esausto.
Claudia aveva paura. Tremava. Il cuore voleva strapparle il petto e fuggire. Ma mosse un passo. E un altro. Era ormai di fronte a lui, allungò una mano per poterlo toccare, ma qualcuno la bloccò.
Si voltò di scatto e la vide: un essere immondo la fissava, con quegli occhi rossi di sangue e la faccia pallida più della neve. I canini appuntiti le dominavano la bocca e dopo aver emesso uno stridulo grido, la scaraventò contro una parente e balzò da Richard.
Stordita, Claudia si aggrappò ad una pietra e si rialzò. Vide l’Essere attaccato al collo di Richard, e in un attimo, i loro sguardi si incrociarono. Era davvero possibile quello che vedeva? Era veramente lei?
“Claudia…” sibilò l’Essere con un ghigno terrificante. “Vuoi assaggiare?” ancora un ghigno.
Julia era irriconoscibile. Claudia, non riusciva a credere ai suoi occhi. Si cibava del sangue di un uomo. Dell’uomo che le aveva portato via.
Gli occhi le si colmarono di lacrime e il cuore di rabbia: con un urlo disperato si avventò sopra quell’Essere e per un attimo riuscì a distoglierla da Richard. Cosa gli stava facendo?
Ma la sua forza era incredibile: l’immobilizzò contro un macigno gelido e la guardò ridendo. Emesse un ghigno e le azzannò il collo. Poi, il vuoto.
Claudia si risvegliò fra le braccia di Al. Erano solo le 8.30 del mattino.
“Signora Di Majo, si sente bene?”
Claudia si alzò. Aveva entrambe le scarpe. Il suo tailleur era perfetto.
“Al... grazie. Dev’essere stato un calo di zuccheri...”
Si diresse verso la toilette.
Le capitava spesso di sognarlo, ma non le era mai successo in questo modo. Si sciacquò il viso e tornò al lavoro.
Durante la giornata aveva chiamato più volte il St. Luke's-Roosevelt Hospital Center sotto falso nome, ma nessuno sembrava conoscere il dott. Richard Scott.
Quella sera era tornata a casa stanca e intontita. Si era messa a letto e aveva assaporato l’odore delle lenzuola pulite.
 “Chissà dov’è finito Richard…” borbottò.
“… e chissà cosa sono questi strani segni sul collo”.





[Frammento del mio racconto "E d'un tratto il vuoto", prossimamente pubblicato nell'antologia cartacea "Non spingete quel bottone" http://www.braviautori.com/forum/viewtopic.php?f=81&t=3666]

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